giovedì 18 dicembre 2014

La morte sospesa e il pietoso "rito del respiro"

Esistono luoghi dove si percepisce l'anima pulsante della terra. Senza andare a scomodare religioni newage, studi di geobiologia o radioestesia, è proprio lì, in quei luoghi, dove, quasi automaticamente, fermandosi ad ascoltare con tutti i propri sensi, ci si mette in sintonia con vibrazioni ancestrali e si ha la netta sensazione di essere a contatto con qualcosa di più grande e misterioso. Un'esperienza derivante dalla suggestione? Può essere, ma se la si prova, questo “qualcosa” ci entra dentro.
Forse è lo stesso tipo di sensazione che deve aver indotto antichi progenitori a edificare un'ara, un tempio, un santuario proprio in quel luogo, isolato, “sacro” quasi per vocazione.
Il santuario della Madonna della Gelata a Soriso (Novara)
La natura attorno all'Oratorio di Santa Maria della Gelata a Soriso, piccolo borgo non lontano dal Lago d'Orta, in Alto Piemonte è, intrinsecamente, suggestiva, proprio nel vero senso del termine, cioè che “suggerisce” qualcosa. Immersa nel bosco, si erge scenograficamente al termine di una lunga scalinata, dominando una piccola e ombrosa valletta. Non lontano, sgorga una fonte, praticata da tempi immemorabili, che già riconduce a un'idea di acqua lustrale.
L'antica fonte della Gelata
E' infatti questo un luogo di prodigi... addirittura di resurrezioni. Qui, quando, un tempo, la mortalità infantile mieteva miriadi di piccole vittime, si svolgeva un pietoso rito: quello del “Respiro”. I piccoli nati morti non potevano essere sepolti in terra consacrata, così compassionevoli processioni portavano i corpicini al cospetto dell'effigie della Madonna, in modo da cogliere almeno un barlume di vita e poter  celebrare un frettoloso battesimo. 
La sacra effigie della Madonna
Un segno, bastava un minimo segno per aspergere sul capo del bambino l'acqua santa purificatrice; solo in questo modo la sua anima avrebbe potuto salire in Paradiso, senza essere privata, nel Limbo, della visione di Dio. In genere si appoggiava una piuma sulla bocca del piccolo e, tra le preghiere incessanti di una fede antica e l'intensa emozione del momento... ecco il fremito della piuma indotto dal respiro del bambino e... il miracolo di un brevissimo ritorno in vita. Esistono autorevoli studi che trattano specificamente di questo rito, tipico delle zone alpine e prealpine della Alpi Occidentali,  una tradizione che ha resistito fino alla fine dell'Ottocento, per poi spegnersi definitivamente all'alba del Secolo Breve. 

Ma, al di là di tutto, è in luoghi come questo dove si sente davvero il “respiro” della natura, dove ci si può abbandonare a un intenso coinvolgimento emozionale, dove rivive, e questo è davvero un piccolo miracolo, la memoria di percorsi umani che, sebbene non ce ne accorgiamo quasi mai, sono dentro di noi.

lunedì 15 dicembre 2014

Val di Chio, entrando in un' "altra" Toscana

A volte l'istinto del turista-viaggiatore ti induce a fare scelte non razionali. Percorrendo la strada che unisce Arezzo a Cortona e al lago Trasimeno, non si sa proprio che cosa ti faccia deviare all'interno, in direzione di una piccola valle e di paesini dalle ignote denominazioni. Forse la voglia matta di risentirsi un po' bambino, alle prese con l'adrenalina di piccole-grandi esplorazioni. Comunque sia, un valore aggiunto lo si trova subito: poter finalmente guidare a 30 all'ora, senza avere alle calcagna il solito e odiosissimo suv, impaziente di superarti a qualsiasi condizione. Poi, togliendosi dalla statale, c'è la possibilità di ammirare dal basso la cittadina di Castiglion Fiorentino, adagiata scenograficamente su un colle. Ma non siamo in provincia di Arezzo? Scherzi della toponomastica legati a vicende storiche che raccontano lotte per assicurarsi il dominio di un borgo in posizione strategica nel territorio del Granducato.
Panorama della Val di Chio, in primo piano la Collegiata di San Giuliano di Castiglion Fiorentino
Già questo fatto ti suggerisce di essere in un luogo particolare, anche perché Castiglione è un po' un confine tra due mondi, la fertile e animata Val di Chiana da una parte e quel discosto solco vallivo che abbiamo iniziato a percorrere, che si chiama Val di Chio, dall'altra. Tornando alla nostra esplorazione dal sapore bambinesco, l'esordio in effetti ha qualcosa di ludico, con la strada che supera torrenti e canali tramite dossi quasi da “montagne russe”... ma presto si entra decisamente in un'altra dimensione, attraversando l'uno dopo l'altro, piccoli agglomerati. E' un po' “un'altra” Toscana, differente da tutte le altre, forse una Toscana “del silenzio” - certamente diverso da quello della non lontana Verna - in cui parla una natura solare e insieme un po' ombrosa, soprattutto man mano che ci si appropinqua nella valletta. Guardandosi intorno, dove non domina il bosco, i dolci declivi della val di Chio sembrano quantomai adatti alla coltivazione della vite e dell'ulivo e in effetti lo sono davvero. Ma questa vocazione ha anch'essa una storia particolare, essendo stata in gran parte “rigenerata” da due giovani donne, Lidia e Roberta. Sfidando pregiudizi maschilisti, con un pizzico di temerarietà hanno, a partire dal '96, riavviato una tradizione che si era fermata con la morte del capostipite della famiglia, ottenendo nel tempo un crescente successo. Persone speciali, che credono in una missione positiva del settore, al punto da ospitare da qualche tempo anche esperienze di agricoltura sociale al fine di favorire, attraverso la pratica sul campo, il reinserimento nella comunità di soggetti svantaggiati, soprattutto autistici.
Alcuni casali dell'alta Val di Chio dal Passo del Belvedere
La Val di Chio la si abbraccia con lo sguardo dall'alto, quando, risalendone il fianco sinistro, si arriva a scollinare al passo del Belvedere dove la strada continua: una sorta di hic sunt leones verso altri luoghi ignoti da esplorare.
A proposito quanto è stata lunga questa deviazione? Ah sì, solo 12 km, sufficienti a scoprire l'ennesimo microcosmo italiano.

martedì 2 dicembre 2014

Sapri: "one hit wonder" per sito risorgimentale

"One-hit wonder", ovvero cantante noto al grande pubblico per un solo, formidabile, successo. Se dovessimo utilizzare lo stesso termine, ovviamente con il dovuto rispetto, anche nella poesia, allora Luigi Mercantini sarebbe a buon diritto nella schiera di chi è ricordato per un unico exploit. Per la verità, ce ne starebbe anche un altro, ovvero quello che risuona con il "Si scopron le tombe, si levano i morti, i martiri nostri son tutti risorti" dell'Inno a Garibaldi!, ma non è paragonabile al pathos di...

Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti!
Me ne andavo al mattino a spigolare,
quando vidi una barca in mezzo al mare:
era una barca che andava a vapore;
e alzava una bandiera tricolore...
Sì, la Spigolatrice di Sapri, questo il grande "hit" del poeta marchigiano di Ripatransone con il suo famosissimo incipit, è qualcosa che rimane impresso nella memoria, sebbene la poesia (e anche la storia) risorgimentale sia ormai divenuta un po' obsoleta nelle italiche scuole. Al di là di ogni considerazione relativa al rivoluzionario, sfortunato e un po' velleitario tentativo del patriota Carlo Pisacane e dei suoi "trecento" di affrancare il Meridione d'Italia dalla monarchia borbonica, è strana la sensazione che si prova in quel di Sapri, ritrovando i luoghi descritti in quella poesia.
La baia di Sapri (Campania) teatro della sfortunata spedizione di Carlo Pisacane
E' una cittadina nell'estremo lembo della Campania, al confine con la piccola porzione di Basilicata tirrenica, raccolta in una baia accogliente e piena di sole. Su uno scoglio, lo Scialandro, una sinuosa statua in vedetta rappresenta quella "spigolatrice", povera lavoratrice dei campi,
La statua che rappresenta la "Spigolatrice di Sapri"
scelta per il "punto di vista" del poeta. E' un vero contrasto, quello che associa questo paesaggio tanto accogliente (con acque limpide segnalate dalla "bandiera azzurra", proprio vicino alla statua) all'epica tragicità di quella poesia...
...Mi feci ardita, e, presol per mano,
 gli chiesi: «Dove vai, bel capitano?»
 Guardandomi, rispose: «Cara sorella...
vado a morir per la mia patria bella»...
Un luogo risorgimentale "strano" (anche se la località dello sbarco non fu precisamente qui) molto diverso da altri, dove sacrari, ossari, lapidi e altro, introducono il visitatore nell'atmosfera di una storia quasi percepita "in bianco e nero".
Nel 1952 anche un film prese spunto dalla vicenda di Sapri
Difficile pensare a quell'estate del 1857, quando la morte di quei giovani si abbracciò a una natura benevola: un connubio stridente cui spesso non si fa caso, ripensando a guerre o battaglie. Sensazione colta in pieno in tempi moderni in un'altra indimenticabile poesia in musica, la
Guerra di Piero, di un artista, certo non "one hit wonder", come Fabrizio De Andrè...
dormi sepolto in un campo di grano 
non è la rosa non è il tulipano
 che ti fan veglia dall'ombra dei fossi 
ma sono mille papaveri rossi”

martedì 25 novembre 2014

Aspettando la fine dell'ultima ora di... Barga

Alla ricerca di location letterarie... A volte sovvengono i tempi del liceo, molti anni fa, alle prese con estenuanti lezioni, cosiddette "frontali", con insegnanti dalla voce monocorde... tutti a testa bassa a scrivere appunti che, a sua volta, la "prof" stessa pedissequamente traeva dalle elucubrazioni di una miriade di noiosissimi critici. L'Ottocento italiano: Leopardi e Manzoni, Manzoni e Leopardi e ancora Leopardi e Manzoni (per quest'ultimo... appuntamento al prossimo post).
Qualche volta si intrufolava nei monologhi anche un Carducci o un Pascoli, ma quasi di "sfroso"... evidentemente non erano molto simpatici alla suddetta, che li liquidava in breve. Nelle ultime ore della mattinata  la mente tentava di sfuggire lontano, di volar fuori dalla scuola, libera.

Ma a che cosa serviva tutta questa poesia da studiare, tutti questi autori? Ogni tanto c'eri e ogni tanto non c'eri.
Il poeta Giovanni Pascoli
La mano era ormai anchilosata nel prendere appunti e talvolta sul foglio apparivano frasi sbocconcellate, ormai sconnesse. Un giorno, l'ultima ora di un soleggiato sabato di marzo, coincise con un'altra ora... quella di Barga. Ma che cosa era mai questa Barga?

Al mio cantuccio, donde non sento 
se non le reste brusir del grano, 
il suon dell'ore viene col vento 
dal non veduto borgo montano: 
suono che uguale, che blando cade...
Dunque Barga era un "non veduto" borgo montano... Bello sarebbe essere adesso in montagna - pensavo - mentre la "prof" proseguiva imperterrita la monocorde lettura, intervallata dalle chiose del critico letterario Tizio o Caio.
...E suona ancora l'ora, e mi manda 
prima un suo grido di meraviglia 
tinnulo, e quindi con la sua blanda 
voce di prima parla e consiglia...

e... finalmente la campana, quella della scuola, suonò davvero il termine dell'ultima ora e quella poesia rimase così a metà, lasciando insoluto un quesito... ma dov'era 'sta Barga? E poi la "prof" non aveva detto che il "rifugio" del Pascoli era in quel di Castelvecchio?
Solo da "grandi" si possono capire certe cose e, finalmente, entrare in contatto con i luoghi d'ispirazione dei poeti e rileggere quei passi, questa volta in piena libertà e senza che nessun professore o critico letterario tenti di plagiarti con la sua più o meno personale e più o meno attendibile versione.
La torre campanaria del Duomo di Barga (Lucca) ispiratrice della poesia pascoliana
E si capiscono molte cose quando, da un lato a un altro di una valle giunge il suono di una campana e ci si ferma ad ascoltare. Ci si ferma. Perché è questo che bisogna fare, captando i suggerimenti dei propri sensi e della natura circostante. Si immagina, e sarà un'immaginazione certamente diversa da quella che il poeta tentava di trasmettere con i propri versi... ma non importa, è bello lo stesso. Così, risalendo la valle del Serchio, sopra Lucca, la reminiscenza scolastica non può che indurre a fermarsi in un piccolo borgo, Castelvecchio Pascoli, dove il poeta si illudeva di aver ricostruito, in mezzo alla natura, il suo "nido" natio di San Mauro, in Romagna. E' da qui, dalla sua casa, ora trasformata in museo, che si deve tendere l'orecchio, verso la torre  campanaria di Barga... ritrovata e riconosciuta, e finalmente si può entrare in sintonia con l'ispirazione poetica, quella che tanti anni prima sfuggiva inesorabilmente a uno studente liceale... ma anche alla sua "prof"...
...E suona ancora l'ora, e mi squilla 
due volte un grido quasi di cruccio, 
e poi, tornata blanda e tranquilla, 
mi persuade nel mio cantuccio: 
è tardi! è l'ora! Sì, ritorniamo 
dove son quelli ch'amano ed amo. 


mercoledì 19 novembre 2014

Ricette e campanile... sfida con riso, sul confine del “paniscia-graben”

Anche un paio di letterine possono fare la differenza... Nell'Italia degli ottomila comuni, dell'orgogliosa rivendicazione di tradizioni locali, del guardarsi in cagnesco tra dirimpettai, non possono certo mancare dispute di campanile su un patrimonio di grande importanza nel nostro pese come quello del cibo. Lotte al coltello (e anche... alla forchetta, al cucchiaio e cucchiaino) per dimostrare di essere migliori del proprio vicino.
Spighe mature di oryza sativa, il riso
Partiamo dalla Svizzera... Cosa c'entra la Svizzera? Ebbene, anche nella vicina Confederazione le "frammentazioni" non mancano, figlie naturali della plurinazionalità e del multilinguismo. Una di queste divisioni, la più nota, quella tra la Svizzera tedesca e la Svizzera francese ha preso il nome, guarda caso, dal tipico piatto a base di patate della regione germanofona, i rösti. E quel solco, il rösti-graben (fossato del rösti) - citato spesso dai media per rimarcare differenze più o meno sensibili tra le due etnie maggioritarie in Svizzera, dal punto di vista della mentalità o delle scelte elettorali o politiche - addirittura si identifica in un 
"confine" geografico che corre lungo la valle del fiume Sarine (in tedesco Saane) nel canton Friburgo (ovviamente bilingue). Detto questo, e prendendo a prestito la vicenda, quanti graben, grandi o piccoli, profondi o meno, abbiamo in Italia nel segno del cibo e delle preparazioni gastronomiche? Domanda a cui davvero è impossibile rispondere. Mi limito a citare quello di mia diretta conoscenza, il "paniscia-graben" che vede contrapposte fieramente due comunità (ovviamente) assai vicine: Novara e Vercelli. A Novara si fa la paniscia, a Vercelli la panissa, entrambi gustosi primi della tradizione culinaria popolare a base di riso. Ora, andando a spulciare qua è là in rete si leggono ricette, in entrambi i casi, con mille varianti (come spesso succede per preparazioni non “codificate”) e pareri, più o meno dotti, sulle similitudini o le differenze di questi due piatti.
Paniscia novarese dell'osteria dei Gatt di Lumellogno (Novara)
Addirittura alcuni autorevoli esperti sostengono, a torto, che due risotti siano sostanzialmente uguali. Affermazione quanto mai blasfema sia alle orecchie di un novarese che di un vercellese. Quali sono le differenze dunque? Tenuto conto dei segreti personali di ogni chef o casalinga/o, e quindi senza sconfinare nel "campo minato" della preparazione e dei dettagli, soprattutto riguardo al soffritto (in genere lardo e
salam d'la duja, ovvero salame sotto grasso a Vercelli, lardo e mortadella di fegato, a Novara) la panissa vede, tra gli ingredienti aggiuntivi al riso, la presenza preponderante dei fagioli; nella paniscia trovano posto invece  più verdure in diversa quantità, come verze, sedano, porri e, secondo i gusti personali, altre ancora. Si dirà, ben poca differenza. E invece no! Un palato appena attento coglie senz'altro una sensibile diversità nel gusto. Ma tornando al nostro "paniscia graben", anche quest'ultimo può coincidere con un elemento geografico, nella similitudine con l'omologo elvetico? Al posto del fiume Sarine, potremmo metterci, a questo punto, un altro fiume, il Sesia (che guarda caso a Vercelli chiamano diversamente: "la Sesia" e, in passato, è stato davvero un confine storico) che separa grosso modo le due province, contrapposte peraltro, come si conviene al "dna italico", da accese e antiche rivalità, soprattutto nei vicinissimi capuologhi. Ma, così come succede in Svizzera per il rösti-graben, è una scelta per comodità e convenzione, proprio perché esistono aree di "ibridazione"... senza contare che nella vicina Valsesia esiste pure, sempre a base di riso, la panizza
Una domanda però rimane nella… fondina: quale delle due preparazioni è la più buona? De gustibus, anche se, ovviamente per spirito di campanile, la mia scelta non può essere che una... e, per me, ciò che dà quel tocco in più nel legare ed esaltare al meglio tutti gli ingredienti è l'umilissima verza, meglio se già ammorbidita dalle prime brine invernali. A proposito, per assaggiare una vera paniscia novarese dove andare? Al di là delle rivisitazioni della ricetta popolare di luoghi più o meno chic, preferiamo una versione ruspante come quella dell'osteria dei Gatt di Lumellogno, frazione "contadina" di Novara. Paniscia e panissa: anche un paio di letterine possono fare la differenza...

lunedì 3 novembre 2014

Quell'effimero valore aggiunto del paesaggio padano: le "rotoballe"

Dalle Alpi al Lilibeo - come si diceva una volta - ovvero in tutt'Italia, i paesaggi rurali hanno vissuto, una ventina d'anni or sono, un sorta di cambiamento epocale da "seconda repubblica". Mentre impazzava tangentopoli, la "rivoluzione" dei campi era affidata non a qualche pubblico ministero ma alle... rotopresse. Macchinari un po' inquietanti al traino di trattori che, in men che non si dica, "sfornano", perfettamente imballate in film plastici, enormi balle a forma di tronco di cilindro: le rotoballe, appunto.
Rotoballe a Mosezzo (Novara)...



Paglia di frumento o di riso, fieno e foraggi non fa differenza... il paesaggio rurale in pochissimo tempo cambia radicalmente aspetto, punteggiato da questa sorta di menhir vegetali che a volte vanno a sostituire più prosaiche balle a parallelepipedo. Sì perché, non si sa come, queste rotoballe danno un tocco di poesia in più al paesaggio: chissà, forse sarà la loro somiglianza a grosse biglie per qualche... passatempo di un gigante, arrivando a pesare anche oltre tre quintali.
...e a Palazzolo Acreide (Siracusa)

Fatto sta che se solo si immette la parola "rotoballe" in "ricerca immagini" di google, ci si accorge ben presto della profonda differenza tra quelle a parallelepipedo e quelle rotonde... nel senso che queste ultime, le nostre rotoballe, danno ispirazione a una miriade di fotografi (con tanto di vetrine facebook) che si sbizzarriscono nella reinterpretazione artistica di un paesaggio, magari normalmente un po' anonimo, grazie a questi elementi aggiuntivi. E ciò vale ancor più per i paesaggi padani, "condannati", si fa per dire, all'orizzontalità della pianura o all'ortogonalità (in genere) delle superfici coltivate.
Cilindriche o a parallelepipedo? Una scelta "di campo" per due "tocchi" diversi al paesaggio padano




Un dubbio ci sovviene, non è che queste rotondità, inconsciamente, riportino a quelle delle mitiche mondine, chinate nel loro massacrante lavoro nelle risaie? Che le rotoballe richiamino in noi la nostalgia di una Pianura Padana ormai perduta, pullulante dell'elemento umano?

Quando la campagna piemontese e lombarda pullulava di umanità: le "rotondità" delle mondine

Qualunque sia la risposta, quelle distese di rotoballe che improvvisamente appaiono e altrettanto velocemente spariscono per essere usate o insilate, sono un piccolo piacere, dal sapore un po' metafisico, anche per l' occhio di un fugace osservatore motorizzato.

giovedì 30 ottobre 2014

Sempione, un Passo... nella storia

Nella Pianura Padana centro-occidentale probabilmente non esiste città che non abbia nella propria toponomastica  un corso o una via che... "guarda verso l'alto". Ovvero che non sia dedicata a uno dei più importanti passi alpini, fondamentale tramite tra la Pianura stessa e l'Europa centrale fin dai tempi più remoti. Percorrere la strada del Passo del Sempione, il "protagonista" di oggi, vuol dire rivivere una storia millenaria, sulle orme degli Leponzi, l'antica popolazione alpina che si stanziò per prima nell' Ossola, dei Romani, che la utilizzarono militarmente per raggiungere le Gallie, dei Burgundi, dei Longobardi, dei Franchi e... così via nei secoli. 
L'alta val Divedro, nella quale si inerpica la strada
 del  Sempione.Sullo sfondo il Fletschorn (3993 m)
Bellicosi o meno, una "via dei popoli", si potrebbe dire; ma intanto vediamo come si arriva ai 2005 metri sul livello del mare del valico. Si parte da una delle "capitali" della compitazione. Cioè? Sì, insomma, per essere più chiari, dello "spelling" italiano, dove la lettera "D" è associata alla cittadina di Domodossola, raggiungibile tramite l'autostrada Voltri - Gravellona Toce e poi con la statale 33, ovviamente "del Sempione". Per la verità Domo, così è familiarmente conosciuta in zona, viene solo sfiorata dalla "route 33", ma funge da base di partenza storica per il Passo. Dunque, intanto c'è da dire che, a parte tratturi e mulattiere degli antichi popoli, il tracciato "moderno" della strada tra le montagne fu voluto da Napoleone, nell'intenzione, all'inizio del 1800, di collegare direttamente Parigi con Milano.
Una rara immagine di inizio '900 (prima dell'apertura del tunnel ferroviario) con la diligenza a cavalli al Passo
Lo scrittore americano J.F.Cooper, autore de "L'ultimo dei Moicani", nel percorrerla nel 1834 ne fu ammirato:
"La bellezza, la precisione, la forza ed il raziocinio con i quali era stata costruita la strada, ci strappò esclamazioni di meraviglia". La salita è abbastanza dolce fino al confine italo-svizzero poco oltre Iselle
Iselle, ultimo paese italiano prima del confine
(ultima stazione italiana della linea ferroviaria del Sempione) per poi inerpicarsi tra le strette Gole di Gondo, toccare il villaggio omonimo, bypassare quello di Simplon Dorf (per ora...) e, per spazi più aperti, toccare infine i "duemila" del Passo, caratterizzato dalla presenza del suo massiccio ospizio. E se il confine politico tra Italia e Svizzera ormai lo abbiamo passato da un pezzo, proprio qui, sul Passo, è fissato quello geografico, coincidente con lo spartiacque alpino (da una parte le acque vanno nel Po, dall'altra nel Rodano) senza contare che il Sempione è inoltre il “divisorio” tra le Alpi Pennine, sul lato orografico destro e Lepontine, su quello sinistro.
 Per nominarlo "alla tedesca" (siamo nel canton Vallese) che cosa fare al Simplonpass? Nella speranza di una bella giornata, innanzitutto godersi un panorama eccezionale sulle vette dell'Oberland bernese e sui vicinissimi ghiacciai del Monte Leone, magari salendo in pochi minuti alla grande aquila di pietra che veglia sul valico, monumento voluto per celebrare, in pieno conflitto mondiale, la fiera indipendenza del popolo svizzero.
L'ospizio del Sempione al Passo (2005 m). Alle spalle i ghiacciai del Monte Leone
Poi merita una visita il grande ospizio, severa costruzione d'inizio '800, gestito oggi come ostello (può ospitare 130 persone) dai padri di San Bernardo, proprio quelli dell'omonimo altro grande passo alpino. Ovviamente siamo arrivati fin qui motorizzati (a proposito, il Sempione, malgrado l'altitudine, normalmente è tenuto aperto tutto l'anno) ma per gli escursionisti si può percorrere qualche tratto a piedi dell'antica mulattiera Stockalperweg (conosciuta anche come "sentiero Stockalper", ben segnato) voluta dalla mitica figura del barone Kaspar Stockalper (1609-1691) che, ai tempi, gestiva un multiforme commercio attraverso il Passo. E per portarci via qualcosa non solamente negli occhi e nella memoria? Ricordate il villaggio di Simplon Dorf ("dorf" vuol dire proprio "villaggio") quello bypassato dalla grande strada? Ebbene al ritorno il consiglio è quello di fare una breve deviazione per fermarsi proprio là. Se si ha fame, da non perdersi, al Restaurant Post, i tipici piatti svizzeri a base di formaggio fuso, la raclette e la fondue, roba non proprio leggera ma... decisamente appagante. Di lì, il cammino è breve per il caseificio locale, come è altrettanto breve, per accompagnare il companatico, quello per raggiungere la bäckerei (panetteria) Arnold dove si possono acquistare i migliori pani della tradizione alpina svizzera oltre a ottimi dolci. A quel punto, veri “eroi del Sempione”, non vi resterà che declamare qualche passo (guarda caso...) dell'omonima poesia del Pascoli (ci perdoni il poeta... del resto amava la buona tavola) in onore dell'inaugurazione, nel 1906, della galleria ferroviaria del Sempione:
"Sottoterra due vaporiere immote,
divise da una grande porta,
aspettano. Un’ardente ansia le scuote. Un urlo va per l’aria morta.
 Porta di ferro, oggi è il trionfo! Muovi su gli aspri cardini sonanti!
Apriti, o porta dei millenni nuovi!
 O nuovi vincitori, avanti!...Porta di ferro!… Oh! chiama tu, grande Urbe,
le tue legioni veterane dalla vittoria! A quelle eroiche turbe
 dà gl’inni del trionfo, e il pane".