martedì 14 novembre 2017

Monte Rosa, ciò che resta del ghiaccio e di un poeta


Da pochi giorni il Monte Rosa mostra finalmente alle Prealpi e alla pianura Padana Nord Occidentale quelli che dovrebbero essere i suoi tipici connotati. Con il bianco delle nevi e dei ghiacci in luogo di un grigio scheletro di rocce emergenti, mostrato in un malinconico volto nella prima parte dell’autunno.
Sconfortante il notare come nel breve lasso di alcuni decenni, e ormai di anno in anno, si possa notare vieppiù velocemente la scomparsa di quel ghiaccio (roese), origine del suo nome, che un tempo conoscevamo come perenne. Giusto dieci anni fa, nel settembre del 2007, il ritiro delle lingue glaciali restituiva i resti mortali di un romantico alpinista-poeta, scalfendone in parte il mito della misteriosa scomparsa, avvenuta molti anni prima, nel 1951. Ettore Zapparoli, mantovano e milanese d’adozione, era l’archetipo di quella figura di alpinista romantico destinata a sparire definitivamente nei primi decenni del dopoguerra.
Un giovane Zapparoli
Personaggio eclettico e dalle mille sfaccettature, musicista e artista: un tipo del tutto incompreso, troppo indietro (o avanti) per la sua epoca. Amava salire sul Duomo di Milano, nelle giornate terse, per guardare, riguardare e impossessarsi del “suo” Monte Rosa in un’osmosi esclusiva e segreta tra i ghiacci e la sua anima di alpinista-poeta. Non per niente, nel 1937, tra le innumerevoli salite, aveva aperto una nuova via, la “Cresta del poeta” sulla parete Est della Nordend (seconda cima per altezza del massiccio) e nel 1948 il “Canalone della solitudine”, sempre sulla Nordend, sebbene questa “prima” sia ritenuta dubbia.
La Nordend (4609 m), ultima vetta sulla destra
Da buon romantico, tutte “in solitaria”, sfidando oltre alle difficoltà alpinistiche i noti pericoli oggettivi, come i crolli di rocce (oggi ancor più frequenti) della Parete Est di Macugnaga del Monte Rosa. Fu anche scrittore ed editò due romanzi di scarso successo, “Blu Nord” e “Il silenzio ha le mani aperte”, visionari, parto di sofferte ispirazioni, a volte illeggibili (soprattutto il primo) a volte fioriti di invenzioni geniali.

Come nella sua vita di incompreso, forse voluta e forse no. Ma nel settembre del 1951, ai tempi della sua misteriosa scomparsa, entrò nella leggenda grazie a un elzeviro dell’amico Dino Buzzati, scrittore e grande uomo di montagna, sul "Corriere della Sera": “Benché io non sia mai stato là, lo vedo uscire dal rifugio Marinelli alla luce della luna e allontanarsi attraverso le rocce e poi sulla fosforescente neve, tric tric si ode il suono ritmico della sua piccozza sulle pietre, tric tric sempre più lontano e poi silenzio, soltanto la sua sottile sagoma scura tra i ghiacciai, dritta, viva, fin troppo romantica, con la eleganza rigorosa di chi parte per l'eternità... Un uomo di ormai cinquanta anni se ne va incontro alla sorte, senza compagni, senza che nessuno lo sappia, come un ragazzo che fugga da casa. E' un musicista, uno scrittore. Dicono che da giovane quando scendeva le cime, sembrasse un biondo arcangelo...” Una leggenda corroborata anche dalle testimonianze dei custodi del rifugio Zamboni-Zappa,  “campo base” dal quale era partito per quella ultima sua ascensione: “Se dovessi morire sul Rosa non venite a cercarmi: tanto non mi trovereste mai”. 
E invece, dieci anni fa il ghiacciaio in sofferenza ha restituito alcuni suoi resti ed effetti personali, tra i quali un fazzoletto bianco, finemente ricamato. 
Così quella scomparsa celebrata ai tempi quasi come un amoroso e definitivo abbraccio tra una musa e il suo poeta, si è trasformata dieci anni fa in cronaca (e anche la lapide al cimitero di Macugnaga si è prosaicizzata), ripercorrendo una vicenda, ormai dimenticata dai più, di oltre mezzo secolo prima. Nello stesso modo in cui le cronache si occupano ormai, ogni anno che passa, della scomparsa dei ghiacci, attributo via via più effimero dell’antica maestà del Monte Rosa.
Da “Il silenzio ha le mani aperte” di Ettore Zapparoli
Se uno è costretto a scendere di lassù
 per rientrare nel giro delle faccende cittadine,
 in viaggio, appena può, s’intana nell’angolo
 di un vagone, chiude gli occhi
 schifando la realtà che ha intorno,
 e improvviso gli scatta allora nella mente
 lo specchio della parete in un rovescio di luce,
 e mormora: amore.