venerdì 15 dicembre 2017

Il Sempione del "Generale" Bartolomeo Dulio: una storia dimenticata di commerci e grandi, effimere, fortune


Per chi vive nelle terre a cavallo tra Piemonte e Lombardia è il “Passo” per antonomasia… da sempre e per tutte le popolazioni stanziate qui, autoctone o meno che fossero... Leponzi, Celti, Romani, Longobardi e così via nei secoli.  Porta, a oltre 2000 metri di quota, verso un "altrove"  difeso da gole altissime e terrifiche
Le Gole di Gondo "difendono" il Sempione
. Il Sempione, un luogo che, nell’antichità, non poteva non essere associato, a buon diritto, a quel motto infames frigoribus alpes che certificava le Alpi come territorio il più possibile da evitare, ostacolo quasi insormontabile a qualsiasi traffico o contatto tra i popoli al di qua e al di là dello spartiacque. Malgrado ciò, pur tra ovvie difficoltà oggettive, sempre e comunque frequentato per i più disparati motivi, bellicosi o pacifici che fossero, da millenni.

Per lungo tempo furono sentieri e tratturi poi, finalmente, arrivò il tracciato "moderno" della strada del valico, voluta da Napoleone, nell'intenzione di collegare direttamente Parigi con Milano. Lasciando perdere i sogni di gloria dell’imperatore, quella strada aprì di fatto a vieppiù intensi scambi tra Italia, Svizzera e conseguentemente Nord Europa, seguendo l’esempio indicato dalla mitica figura del barone Kaspar Stockalper che già più di un secolo addietro gestiva un multiforme commercio attraverso il Passo.

Nei primi decenni dell’Ottocento, Giuseppe Dulio, di Borgomanero, abbagliato da quella fantastica via che apriva nuovi orizzonti, decise di costituire un’impresa al fine di dare uno sbocco commerciale ai prodotti del Piemonte Orientale (riso, granaglie, derrate alimentari - anche di propria produzione - vino, tessuti ecc.) oltre confine. Si dice fosse un uomo molto difficile con cui avere a che fare, ma assai abile negli affari. Di fatto ciò costituì le premesse delle fortune della famiglia. Il solo figlio maschio (ebbe una figlia, Cristina, che finì monaca) Bartolomeo (1829-1899) affiancò presto il padre nel business. Si aprì così una piccola epopea, con un tocco di far west.
Il "Generale"
Le merci venivano caricate su diligenze, oppure trasportate a dorso di mulo o asino, dopo essere state ordinate, classificate e imballate nella base di Borgomanero. Poi le carovane si incamminavano lungo la strada del lago d’Orta e quindi verso le montagne e il Passo, nelle cui vicinanze il percorso diventava pericoloso, infestato com’era da briganti e grassatori, tanto che i convogli dovevano essere scortati da guardie armate di fucili.

Così la ditta raggiunse ben presto oltre il centinaio di stipendiati… oltre alle guardie, carrettieri, stallieri, uomini e donne di fatica che caricavano i sacchi, contadini che lavoravano nelle tenute, pastori e mandriani. Bartolomeo Dulio veniva chiamato da tutti "il Generale" (nome che è tutto un programma) e i sui figli "i bambini del Generale", due maschi e quattro femmine avuti dalla prima moglie e un maschio e due femmine, dopo il secondo matrimonio con una nobile, la contessa Carolina Gattico. Tutti vivevano in una grande casa nella via della stazione di Borgomanero che già si chiamava così ben prima che fosse terminata la linea ferroviaria Novara-Domodossola.
I traffici continuavano tutto l’anno, eccetto che nell’inverno, pur considerando che anche in primavera, ai 2005 metri del Passo, si poteva passare in mezzo ad altissimi muri di neve.
I tempi stavano però cambiando e “i bambini del Generale” non poterono far nulla contro il progresso che, nel 1906, battezzò la grandiosa galleria ferroviaria del Sempione: “Sottoterra due vaporiere immote, 
divise da una grande porta, 
aspettano. Un’ardente ansia le scuote. Un urlo va per l’aria morta.
 Porta di ferro, oggi è il trionfo! Muovi su gli aspri cardini sonanti!
 Apriti, o porta dei millenni nuovi!”.
Niente più diligenze, carriaggi, muli, asini, briganti e fucilate ma un più moderno e sicuro trasporto su rotaia. La fortuna, la ricchezza e le proprietà della famiglia erano tuttavia consolidate da decenni di commerci. Ma, dopo la morte del "Generale", l’ingente patrimonio, tra eredità, ricche doti per la discendenza femminile, crollo dei prezzi delle derrate agricole e altre vicende, ben presto si dissolse in mille rivoli. E di quella storia, una tra le tante che può raccontare il Sempione, rimane un lontano ricordo familiare e qualche vecchia foto.

martedì 14 novembre 2017

Monte Rosa, ciò che resta del ghiaccio e di un poeta


Da pochi giorni il Monte Rosa mostra finalmente alle Prealpi e alla pianura Padana Nord Occidentale quelli che dovrebbero essere i suoi tipici connotati. Con il bianco delle nevi e dei ghiacci in luogo di un grigio scheletro di rocce emergenti, mostrato in un malinconico volto nella prima parte dell’autunno.
Sconfortante il notare come nel breve lasso di alcuni decenni, e ormai di anno in anno, si possa notare vieppiù velocemente la scomparsa di quel ghiaccio (roese), origine del suo nome, che un tempo conoscevamo come perenne. Giusto dieci anni fa, nel settembre del 2007, il ritiro delle lingue glaciali restituiva i resti mortali di un romantico alpinista-poeta, scalfendone in parte il mito della misteriosa scomparsa, avvenuta molti anni prima, nel 1951. Ettore Zapparoli, mantovano e milanese d’adozione, era l’archetipo di quella figura di alpinista romantico destinata a sparire definitivamente nei primi decenni del dopoguerra.
Un giovane Zapparoli
Personaggio eclettico e dalle mille sfaccettature, musicista e artista: un tipo del tutto incompreso, troppo indietro (o avanti) per la sua epoca. Amava salire sul Duomo di Milano, nelle giornate terse, per guardare, riguardare e impossessarsi del “suo” Monte Rosa in un’osmosi esclusiva e segreta tra i ghiacci e la sua anima di alpinista-poeta. Non per niente, nel 1937, tra le innumerevoli salite, aveva aperto una nuova via, la “Cresta del poeta” sulla parete Est della Nordend (seconda cima per altezza del massiccio) e nel 1948 il “Canalone della solitudine”, sempre sulla Nordend, sebbene questa “prima” sia ritenuta dubbia.
La Nordend (4609 m), ultima vetta sulla destra
Da buon romantico, tutte “in solitaria”, sfidando oltre alle difficoltà alpinistiche i noti pericoli oggettivi, come i crolli di rocce (oggi ancor più frequenti) della Parete Est di Macugnaga del Monte Rosa. Fu anche scrittore ed editò due romanzi di scarso successo, “Blu Nord” e “Il silenzio ha le mani aperte”, visionari, parto di sofferte ispirazioni, a volte illeggibili (soprattutto il primo) a volte fioriti di invenzioni geniali.

Come nella sua vita di incompreso, forse voluta e forse no. Ma nel settembre del 1951, ai tempi della sua misteriosa scomparsa, entrò nella leggenda grazie a un elzeviro dell’amico Dino Buzzati, scrittore e grande uomo di montagna, sul "Corriere della Sera": “Benché io non sia mai stato là, lo vedo uscire dal rifugio Marinelli alla luce della luna e allontanarsi attraverso le rocce e poi sulla fosforescente neve, tric tric si ode il suono ritmico della sua piccozza sulle pietre, tric tric sempre più lontano e poi silenzio, soltanto la sua sottile sagoma scura tra i ghiacciai, dritta, viva, fin troppo romantica, con la eleganza rigorosa di chi parte per l'eternità... Un uomo di ormai cinquanta anni se ne va incontro alla sorte, senza compagni, senza che nessuno lo sappia, come un ragazzo che fugga da casa. E' un musicista, uno scrittore. Dicono che da giovane quando scendeva le cime, sembrasse un biondo arcangelo...” Una leggenda corroborata anche dalle testimonianze dei custodi del rifugio Zamboni-Zappa,  “campo base” dal quale era partito per quella ultima sua ascensione: “Se dovessi morire sul Rosa non venite a cercarmi: tanto non mi trovereste mai”. 
E invece, dieci anni fa il ghiacciaio in sofferenza ha restituito alcuni suoi resti ed effetti personali, tra i quali un fazzoletto bianco, finemente ricamato. 
Così quella scomparsa celebrata ai tempi quasi come un amoroso e definitivo abbraccio tra una musa e il suo poeta, si è trasformata dieci anni fa in cronaca (e anche la lapide al cimitero di Macugnaga si è prosaicizzata), ripercorrendo una vicenda, ormai dimenticata dai più, di oltre mezzo secolo prima. Nello stesso modo in cui le cronache si occupano ormai, ogni anno che passa, della scomparsa dei ghiacci, attributo via via più effimero dell’antica maestà del Monte Rosa.
Da “Il silenzio ha le mani aperte” di Ettore Zapparoli
Se uno è costretto a scendere di lassù
 per rientrare nel giro delle faccende cittadine,
 in viaggio, appena può, s’intana nell’angolo
 di un vagone, chiude gli occhi
 schifando la realtà che ha intorno,
 e improvviso gli scatta allora nella mente
 lo specchio della parete in un rovescio di luce,
 e mormora: amore.

venerdì 27 ottobre 2017

Altopiano del Golgo, anima sarda... un po'western e demoniaca


Meglio venire al mattino dalle parti dell’altopiano del Golgo, sopra Baunei (Ogliastra), per gustarsi in quasi solitaria un luogo con un’anima… anche perché qui della cosiddetta "anima viva" non c’è traccia  e si è accolti da uno stuolo di animali allo stato semibrado che, pur pacifici, ti fanno subito capire che sei un’ospite.  Arrivando alla chiesa di San Pietro, gentilmente accompagnati da un asino, ci si immerge in una strana atmosfera di ambientazione mexican-western, dove non sarebbe strano veder spuntare qualche campesino o un giovane Clint Eastwood a cavallo.


L’antica costruzione rivela però una storia autenticamente sarda, circondato da una cinta muraria all’interno della quale trovano posto gli "istaulus" detti anche "cumbessias", sorta di rustici ricoveri che un tempo erano utilizzati dai pellegrini che qui convenivano per le varie devozioni.

Attorno, in un silenzio sacrale, indotto da un piccolo ed enigmatico  monolite antropomorfo di epoca nuragica, antichi olivastri prosperano in una vitalità quasi oltre il tempo, in una loro ineffabile dimensione.
E antichi tratturi conducono, poco più in là, a un’orrido buco di  quasi trecento metro di profondità, l’abisso "Su Sterru" che pare contrappuntare la santità.
Una delle tante leggende racconta che in questi paraggi vivesse una demoniaca e gigantesca serpe, agguantata da San Pietro e poi scagliata in terra con tanta energia da creare l’abisso stesso. Ma è tempo di andare per non rovinare sensazioni… stanno cominciando ad arrivare i "cannibali" agostani che stanno cercando la giusta via per guadagnarsi un bagno nelle acque cristalline della sottostante Cala Goloritzè.

lunedì 25 settembre 2017

Luoghi e nomi nello spazio-tempo di Gairo

La visita a Gairo Vecchio (Sardegna), rovine relativamente recenti, modeste, senza particolare pregio artistico ti fanno indovinare un tempo e anche una dimensione spaziale particolare. Era un villaggio dell’entroterra dell’Ogliastra, oggi è un insieme silente di muri stranamente variopinti e di case con il cielo per soffitto che cominciano a essere stritolate dalle spire verdi di onnipresenti piante di fico.



Gairo fu quasi completamente distrutto da un’alluvione, e poi abbandonato, nel 1951, per essere costruito più a monte. Addentrandosi nei viottoli e nelle poche strade degne di questo nome, ci si accorge subito che Gairo non era un paesino così piccolo anzi, senza lasciarsi andare a troppe suggestioni da "città fantasma", si intuisce una comunità ben organizzata e un paese, con case umili ma anche meno umili, ben inserito nel territorio e nell’aspra natura circostante. Una vita "in salita", come le "vie" del borgo, legata alla terra e agli animali, dove si immaginano uomini, donne e bambini… famiglie, artigiani, prete, dottore, stazione dei carabinieri.

Un salto a ritroso nel tempo… ma quale tempo? Ne ho scelto uno, su suggerimento… quello di uno delle migliaia di paesi del giovane Regno d’Italia. Il suggeritore, anzi le suggeritrici? I nomi delle "vie", quelle vie che in ogni piccolo paese magari erano (e sono) intitolate, quasi intestate, a questo o quell’abitante, dove la piazza è quella "della chiesa", la via conduce inevitabilmente "ai campi" e cose di questo tipo. Ma qui a Gairo, come in anche nel più piccolo dei paesini, il Regno, quasi a ribadire la propria ragion d’essere e con un Risorgimento ancora vicino, non rinunciò ad affibbiare, nella toponomastica "ufficiale", nomi altisonanti a umili stradine come succede per esempio con "via Garibaldi" "via Mazzini" e "via Menotti" e naturalmente con una "via Umberto", ciò che lascia presagire che queste scritte, che paiono resistere benissimo agli oltraggi delle intemperie, siano state dipinte proprio alla fine dell’Ottocento.


Ovviamente non poteva mancare una "via Roma". Qui, in un edificio che si indovina più importante degli altri (sarà stato la sede del Comune?) ecco un’altra scritta, di qualche decennio successiva: "Vincere".
Il motto del regime, la parola d’ordine "imperativa e categorica", che tante volte ho notato campeggiare a caratteri "massicci", così proprio non l’avevo mai vista: piccola, timida, quasi a volersi nascondere e a lasciar presagire nulla di buono… ora una flebile eco fagocitata dal silenzio eloquente dello spazio-tempo di Gairo.

martedì 5 settembre 2017

Orgosolo: il riscatto, Garibaldi e… un palo

Qualche decennio fa era luogo di "riscatti", nel senso di essere universalmente riconosciuto come famigerata "capitale" del banditismo sardo e dell’Anonima sequestri, grazie anche alle gesta del più famoso latitante (e fenomeno mediatico) di allora, Grazianeddu Mesina. Alla metà degli anni ’70 non si poteva immaginare che un’estemporanea iniziativa di un insegnante e artista senese, Francesco Del Casino, volta a commemorare sui muri del paese il trentesimo anniversario della Liberazione d'Italia, potesse pian piano dare origine al "riscatto" di Orgosolo (Nuoro) da quella cattiva nomea.

Il paese in se stesso, visto da fuori, non dice molto, adagiato mollemente su un declivio… se poi metti una domenica d’agosto con circa 40° all’ombra, non è che possa aspettarti un pullulare di vita.
Orgosolo (Nuoro
Più facilmente un deserto estivo, come succede nei vicini borghi, anche più graziosi, come Mamoiada e Fonni… E invece, ecco il piccolo miracolo. Un pullulare di vita, di turisti (italiani e molti stranieri, anche accompagnati da guida in lingua), di attività attorno ai murales, oggi centinaia, che colorano Corso Repubblica e altre strade del centro, ma non solo.



Un fantastico museo a cielo aperto fatto di figure drammatiche che ora raccontano la vita dei pastori, ora parlano di storiche lotte sociali (come la rivolta antigovernativa  di Pratobello del ’69), a volte si tuffano nella satira politica a volte si aprono alle tematiche attuali del villaggio globale.


Al di là dei messaggi, l’effetto d’insieme, nella diversità di stili, è armonicamente straordinario. La cosa che mi ha più colpito, come idea semplice e proprio per questo efficace è il murale di via Garibaldi, dove campeggia l’effigie dell’Eroe dei due Mondi. Mi immagino quanto sarebbe più bello nelle vie di paesi e città lasciarsi prendere un attimo per mano da figure che ricordano personaggi, vicende, luoghi della nostra storia e della nostra realtà, in un epoca che privilegia l’immagine, piuttosto di una laconica scritta che non suscita alcuna curiosità e a volte manco si legge… a patto però che a guastare l’effetto non ci si metta uno stramaledetto palo di un superfluo segnale stradale che, qui ad Orgosolo,  sembra quasi dare fastidio proprio a un corrucciato Garibaldi.

giovedì 29 giugno 2017

Pieve di Borgomaro, storie antiche tra gli ulivi

Non è raro, anzi è abbastanza frequente, notare sovrapposizioni di stili nelle chiese italiane. E anche sovrapposizioni di tante vicende umane. Alcune tramandate nella storia… altre, private, intime, assorbite dal legno dei confessionali, di antichi inginocchiatoi, di sacri e segreti anditi, prigioniere del loro tempo.  Entrando in una chiesa è bello immaginare (qualche volta percepire) l’umanità che ci è passata.

La pieve dei  Ss.Nazario e Celso di Borgomaro (Imperia)
Meglio farlo quando dominano la tranquillità e il silenzio dei templi più solitari, discosti,  come la Pieve dei santi Nazario  e Celso sulle alture di Borgomaro (entroterra di Imperia), località già sede nell’VIII secolo di una comunità monastica dedita alla coltivazione dell’ulivo. Distrutta dalle incursioni dei saraceni, fu  ricostruita in stile romanico e più volte rimaneggiata in seguito, come nel 1498, quando fu “riorientata” a est (prima era a ovest).
Il portale, senza lunetta
A quell’epoca risalgono il portale - la cui lunetta (con stemmi nobiliari) fu distrutta dai rivoluzionari nel 1794 - e l’affresco della Vergine che allatta.

E poi ancora, nel XVII secolo, fu rinnovata in stile barocco. Nei secoli successivi fu tutto un alternarsi di saccheggi, abbandoni e ritorni; addirittura nel 1942 la canonica fu usata come casermetta per soldati tedeschi, uno dei quali fu ucciso in un conflitto a fuoco sotto l’altare… e quindi la chiesa fu sconsacrata. Malgrado la riconsacrazione del 1951, la Pieve fu nuovamente oggetto di atti vandalici e saccheggi, favoriti dall’isolamento del luogo. Per arrivare, finalmente, nel 2004 quando, a seguito di un graduale e rinnovato interesse per il luogo, si reinsediò qui una piccola comunità monastica benedettina, grazie alla quale si riaprì definitivamente al culto la chiesa e si procedette al recupero dell’ambiente esterno e dello storico uliveto. Insomma una vita decisamente tribolata, ad onta proprio dell’albero il cui ramoscello simboleggia la pace.

La "tomba dei bambini"
A lato del portale di entrata, furono trovate (ora sono sotto un tumulo di pietra e una  croce)  tante piccole ossa: è la cosiddetta “tomba dei bambini”, riservata agli infanti che non avevano fatto in tempo a ricevere il battesimo e quindi destinati a quel “limbo” di tante lezioni di catechismo di una volta e oggi, sostanzialmente, “abolito”.
L’interno della chiesa, in cui si leggono le diverse sovrapposizioni, è sobrio ma accogliente.
La cosa che mi ha colpito, ancor  più delle enigmatiche faccine scolpite sui capitelli romanici, sono i banchi seicenteschi, naturalmente di chiaro legno di ulivo, tutti diversi, consunti, a volte deformati,
non si sa se per assecondare la sinuosità dell’albero madre o forgiati dalle terga, dalle ginocchia o dalle storie  dell’umanità che qui ha fatto sosta, magari solo per una fugace preghiera. Fatto sta che nel silenzio del luogo, sembrano quasi cercare di parlare, depositari di sofferenze, sogni o speranze perduti nel tempo…  ma alla fine cedono anch’essi al rispetto della pace che qui si respira, circondati da un giardino di ulivi accuditi amorevolmente dai benedettini, in un’atmosfera sospesa tra il Getsemani, reminescenze omeriche e il sapore mediterraneo della Liguria.

Pure colline chiudevano d’intorno
 marina e case; ulivi le vestivano
qua e là disseminati come greggi,
o tenui come il fumo di un casale
che veleggi la faccia candente del cielo…

(
Eugenio Montale)

venerdì 5 maggio 2017

Le sei stagioni della vecchia cascina

Vagando nella piana del riso, lungo le strade bianche, gli incontri  non sono molto frequenti, normalmente rari agricoltori meccanizzati, qualche biker e sparute altre “specie” umane in pochi esemplari. Meglio così, a volte è preferibile lasciarsi prendere per mano da ciò che sta intorno, e basta. Anzi, certi luoghi continuano a chiamarti e tu, puntualmente, ci ritorni… perché, non so. Mi è capitato nel maggio dello scorso anno, camminando lungo le rive del canale DAN (Diramatore Alto Novarese) - anche quello in quanto a strano magnetismo su di me non scherza - quando sono stato "catturato" da una cascina.  Una come tante perse nelle risaie e una delle non molte ancora non abbandonate: acqua con le prime piantine di riso, vecchie mura, montagne e soprattutto quell’imponente albero (affiancato da alcuni “fratelli minori”), dall’aspetto quasi sacro. Una visione che mi ha fatto subito venire in mente ricordi lontanissimi, dalla “festa degli alberi” celebrata con entusiasmo alle elementari, alle memorie del nonno che piantava filari di abeti ai bordi della strada, allora sterrata, del Mottarone oltre che nel giardino di casa. Uno di questi lo aveva piantato nel 1930, anno della nascita del suo ultimo figlio, morto poi a 13 anni in circostanze oggi curabilissime. C’è ancora, più in salute che mai. Chissà… forse quel piantone della cascina (un olmo?), mi ha fatto venire in mente quello spirito vitale che pervade tutto, e che ci accomuna anche con gli alberi.  Come si chiama quella cascina?  Cascina dei Prati… nome che è già una poesia, anche se di prati, intorno ce n’è solo uno, piccolino, a ridosso dell’edificio, proprio dove c’è l’albero. Fatto sta che tra nome, suggestioni varie e... sarà solo che è un bel posto, ci sono ritornato più volte… così, per gustare i colori dello scorrere del tempo a ritmi un po’ “piegati” dall’uomo, ma alla fine dettati sempre dalla natura.
 
Foto maggio 2016, luglio 2016, ottobre 2016, dicembre 2016, febbraio 2017, aprile 2017