martedì 13 ottobre 2020

Termoli: attraverso il vicolo più stretto d’Italia e reminiscenze liceali

Avvicinandosi alla parte vecchia di Termoli, si dimenticano in fretta le atmosfere di una periferia piuttosto convenzionale per approdare infine all’incantevole e antico borgo marino, raccolto sotto il torrione del suo castello svevo.


Extra muros, le vie dello struscio e dei negozi, intra muros un dedalo di viuzze che convergono nella piazza della Cattedrale di Santa Maria della Purificazione. Bello è arrivarci, ma solo se si abbastanza “in forma”, dal vicolo più stretto d’Italia, così almeno si dice (sebbene il primato sia rivendicato anche da altri centri) detta “a Rejecelle” (la piccola strada) che nel suo punto  più stretto misura solo 34 centimetri di larghezza.


 

Superata la prova, poco dopo ecco lo splendido spazio dominato dalla ricca facciata romanico-pugliese della chiesa.  

 



Proprio di fronte, un cartello invita, pure in tempo di covid, obbligatoriamente a baciarsi… da notare che per i recalcitranti a fianco c’è pure un'indicazione “uscita di emergenza”. 

 


Comunque, espletato il “dovere”, naturalmente con persona rigorosamente convivente, proseguo ad aggirarmi nella parte più antica di Termoli, sostanzialmente un piccolo promontorio proteso sull’Adriatico, sbucando qua e là sugli affacci a mare. Fuori le mura, in Corso Nazionale, ovvero la strada principale dello struscio e dei negozi, ci si imbatte in due personaggi seduti sulle panchine… due statue, molto realistiche. La prima è di un signore ignoto, infatti la didascalia manca, caratterizzato da uno sguardo che sembra astrarsi in un’altra dimensione. 

 


In mano tiene un libro dove si leggono i primi versi, in greco, dell’Iliade: “Cantami o Diva, del Pelide Achille, l’ira funesta…”. Ma chi sarà? Come al solito soccorre la rete… e subito riaffiorano alla mente reminiscenze liceali. Si tratta infatti dell’insigne grecista termolese Gennaro Perrotta, autore, tra l’altro,  di un “Disegno storico della Letteratura greca”, sulla quale mi sarò sicuramente, ai tempi, spaccato la testa. E vabbè… salutato Perrotta , qualche centinaio di metri più in là  ecco il secondo personaggio, questa volta con didascalia… 

 


Si tratta di un altro famoso, anzi ancor più famoso, figlio di Termoli: il fumettista Benito Jacovitti, quello di Cocco Bill, Zorry Kid e - sì, torno ancora al liceo - del celeberrimo “Diario Vitt”, fedele compagno di anni passati sui banchi di scuola. 

 


Jacovitti, quello dei disegni ricchi di spunti surreali (come gli incredibili salami che spuntavano qua e là), fu tacciato negli anni Settanta (proprio quelli delle mie superiori) di simpatie fasciste, anche se all’epoca, proprio non lo ricordo. Ma a proposito del Ventennio, ecco un’altra sorpresa termolese: poco lontano dalla statua del Perrotta, un edificio, dove non solo campeggiano due fasci littori perfettamente conservati, ma pure la scritta “Anno X dell’Era Fascista”: è la scuola “Principe di Piemonte”, titolo del quale si sarà pure fregiato anche re “Carlo Alberto”, tuttora intitolazione del mio liceo… ed eccomi ancora nella macchina del tempo "classico-liceale".



lunedì 5 ottobre 2020

Rocchetta Alta, il candido lenzuolo di un paese fantasma

È uno dei tanti borghi in Italia che si meritano l’appellativo di “paese fantasma”: in sostanza vuol dire abbandonato e semidistrutto. Il paradigma di questi luoghi è spesso comune, ovvero un destino costruito (si fa per dire) su frane, terremoti, emigrazione, guerra, isolamento. Destino ineluttabile ma che, in qualche modo, ripaga con quella “segreta attrazione per le rovine” che, di fatto, è irresistibile per molti. Così è anche per Rocchetta Alta, nel cuore del Molise, alle pendici delle Mainarde e non lontano dalle sorgenti del Volturno. La incontro in una giornata di fine settembre. La solitudine e l’abbandono che si respira è totale, malgrado l’attiguità di alcune orride case moderne, costruite, suppongo, per ospitare i "fuggitivi" del paese antico.








Nessuno, quindi, in giro. Sul fatto che proprio qui, in posizione tanto “scomoda”, abbarbicati sulla costa della montagna, si sia voluto, nella notte dei tempi, edificare un borgo pare sia dovuto all’esigenza di sfuggire, in epoche medioevali, alle orde dei saraceni, che rasero al suolo l’originario agglomerato di Bactaria, più in basso. Comunque sia Rocchetta, infeudata nei secoli a tutta una serie di signorotti locali, l’ultimo dei quali, a inizio XIX secolo si chiamava, con un nome quasi “scenografico”, Pietrabbondio Battiloro, subì pure nei secoli numerosi eventi sismici. 

 


Il colpo di grazia fu uno scoscendimento franoso, dovuto al disboscamento, ciò che, in pochi anni, fece sì che la popolazione si spostasse definitivamente dalle dimore avite a inizio Novecento. Tornando all’esplorazione, luoghi dell’autorità civile e religiosa sono praticamente contigui: prima la casa comunale con tanto di scritta “credere obbedire combattere” e, praticamente senza soluzione di continuità, la vetusta chiesa di Santa Maria Assunta. Arrancando nel paesino tra sterpi e rovi, almeno fin dove si può, si indovina, nei portali, una certa eleganza… chissà, forse per adeguarsi in qualche modo alla nobiltà locale. In alto, infatti, l’imponente palazzo baronale sembra ricordare al visitatore un  passato non banale. Peccato che questo luogo sia lasciato completamente all’oblio, allo stritolante abbraccio della natura e all’incessante lavorio degli elementi. Peccato, perché il fascino delle rovine, dal canto suo, quasi avvinghia. Anzi, lasciando questi luoghi e volgendosi indentro, Rocchetta Alta sembra quasi richiamarti un’ultima volta e, da bravo “paese fantasma”, saluta sotto un candido lenzuolo.