lunedì 1 luglio 2019

Pontemaglio e Veglio, luoghi di "non passaggio" dell'Ossola nativa


Pontemaglio, all’inizio della valle Antigorio, è uno di quei luoghi “di non passaggio” in cui bisogna proprio volerci andare per qualche motivo. Uno validissimo è la curiosità che ti porta a visitare una volta per tutte, visto che l’avrai sfiorato decine e decine di volte, un luogo tanto vicino a una strada statale di notevole importanza turistica, quanto tagliato fuori dalla morfologia del territorio. Qui infatti la valle è alquanto angusta e, per superare la forra in cui s’insinua il fiume Toce fu costruita una galleria (sostituita alcuni decenni or sono da un manufatto più moderno e ancor più “escludente”) lasciando appena sulla destra il piccolo paesino, raggrumato intorno al soleggiato sagrato della sua chiesetta.
Davvero poche centinaia di metri per un tuffo nell’Ossola “Nativa”, dove le essenziali case in pietra testimoniano la vetustà di un borgo un tempo importante perché proprio passaggio obbligato di uomini, merci ed eserciti tra la piana ossolana  e la valle che si insinuava verso quella Confederazione Elvetica un tempo assai guerresca.

Non può sfuggire, in una piazzetta del borgo, un portale monolitico tripartito dove spiccano due cerchi concentrici scolpiti. Nulla di esoterico ma soltanto la storia locale perpetuata nella pietra.
Non è nient’altro che lo stemma stilizzato dei De Rodis di Premia, feudatari locali istituiti da Ottone IV di Germania che, nei loro vari rami, dominarono questa valle in un periodo travagliato per l’Ossola tra il XII e il XV secolo. Ma l’importanza strategica dei luoghi per quella signoria, e non solo la si può cogliere pienamente sforzandosi ancora un poco, a piedi, per raggiungere un’altra antica borgata ormai sostanzialmente spopolata, Veglio oltre uno scalino roccioso e boscoso più in alto. Su un poggio panoramico una presenza, lo “Unithope angel” dell’artista svedese Lehna Edwall, parte di un progetto artistico “globale”, guarda verso la piana ossolana.
Il villaggio, è dominato da quello che è conosciuto come il “Castello dei Picchi” (pare dal nome degli ultimi proprietari). Una costruzione spettrale, maestosa e in parte diroccata che fu costruita appunto dai de Rodis, nel corso del XV secolo per controllare la valle grazie a un sistema articolato di torri di segnalazioni, castelli e caseforti che si insinuava da una parte intutta la Valle Antigorio e, dall’altra parte, infallibile vedetta nel controllare movimenti di soldataglie nel solco vallivo ossolano.
Se sono arrivato sin qui, tornando in breve sui miei passi non  mi perdo un’experience assolutamente indimenticabile, ovvero gironzolare tra i viottoli di Veglio, etimo  che è tutto un programma se lo si associa alla funzione dell’antico maniero, villaggio abbandonato completamente  negli anni 60 e 70 a causa del paventato distacco di una grossa frana. Malgrado il tempo stia logorando inesorabilmente le antiche costruzioni, qui si è davvero a contatto con l’Ossola ancestrale. Non un deturpante filo della luce, non un’antenna o una parabola, solo pietra che si declina in costruzioni tanto umili quanto belle, inserite armonicamente come sono nella natura.
Lavatoi, poggioli in legno, robusti portali (su uno dei quali campeggia la data “1573”) ma anche pregevoli affreschi come una Madonna in Trono, datata 1607, destinata purtroppo a un triste destino.
Qualcuno, almeno temporaneamente, è tornato a Veglio e la più bella immagine di quello che poteva essere il villaggio un tempo è rappresentato da una piccola e deliziosa vigna di montagna, di quelle ossolane, dall’uva dal sapore un po’ asprigno ma generoso.


sabato 4 maggio 2019

Pesariis... il tempo scorre più veloce nel paese degli orologi


Vagando per Pesariis, delizioso villaggio di poche centinaia di anime, annidato nelle montagne carniche (Udine), conosciuto come il “paese degli orologi”, ritornano in mente le parole di un acutissimo intellettuale e scrittore elvetico, Mattia Cavadini: “La certezza è che, come già diceva Heidegger, il tempo si temporalizza solo nella misura in cui ci sono esseri umani. In altre parole, la certezza è che il tempo sta tutto e solo nella mente umana: non è reale, ma cerebrale. L’interrogativo dunque è il seguente: se il tempo non esiste, perché incide in maniera così profonda sull’esistenza degli uomini, determinandone le emozioni, l’identità e il dolore?”. Arduo rispondere… ed è possibile uscire, in qualche modo dalla dimensione tempo? A Pesariis non sembra proprio. Anzi, la misurazione del tempo qui, nelle viuzze del paesino, la fa da padrone: orologi, meridiane, ingegnosi e sorprendenti meccanismi e anche un interessante museo a tema.



Tutto nasce dal fatto che questa è la patria di un’antica e gloriosa dinastia di fabbricanti di orologi, i Solari (poi “emigrati” a Udine) che fin dal XVIII secolo si illustrarono in un’industria che si fece conoscere in tutta Italia (moltissimi orologi di stazioni ferroviarie, di uffici pubblici, oltre che di torri e campanili, “parlano” tuttora friulano) e nel mondo. Non si può che rimanere ammirati dall’iniziativa di questa frazione del comune di Prato Carnico, tuttora in itinere, che costella attualmente il paese di dodici “tappe” di misurazione.

Un percorso che sembra attirarti misteriosamente… forse perché, in montagna, il tempo scorre più veloce a causa di quel potenziale gravitazionale previsto dalla teoria della relatività e dimostrato anche dagli orologi atomici posti a differenti altitudini? Certo, saranno pure nanosecondi, qualcosa che sfugge ai nostri limitati  sensi, forse lontanamente percepibile in arcane e intimissime sensazioni, però questa è un’altra condizione che mette in crisi la convenzionale concezione del tempo. Ma ‘sto tempo esiste o non esiste? Si può uscire dalla sua tirannia? Cavadini suggerisce di andare oltre le logiche dell’io, là dove il tempo è permeato dall’eterno, assumendo alcuni distici del “Pellegrino cherubico” del poeta mistico tedesco Angelus Silesius:
Uomo, se proietti il tuo spirito oltre spazio e tempo
in ogni istante puoi essere nell’eternità.

Eternità son io stesso, quando abbandono il tempo
e me in Dio e Dio in me raccolgo.

Tempo è come eternità, eternità come tempo,
se non sei proprio tu a fare la differenza.

Sei tu a fare il tempo! Son i sensi le sfere dell’orologio:
arresta il bilanciere, e il tempo non c’è più.

Prima ancora che io fossi, ero Dio in Dio
e ancora posso esserlo, se son morto a me stesso.

Quando mi perdo in Dio giungo di nuovo là
dove prima di me fui dall’eternità.

mercoledì 10 aprile 2019

La risaia "alpina" di Barengo, le circostanze inventano un luogo

Sbagliato dire che quello della risaia risulti un paesaggio monotono, perchè, nei suoi cambiamenti stagionali, comunque non lo è. Ma qui a Barengo alcune circostanze, una delle quali  non ripetibile a breve, "inventano" un nuovo, effimero, luogo: la risaia "alpina".  Combinazioni che fanno sì che questa  appaia più simile a un laghetto di montagna. Eccole una per una. Siamo nella zona della provincia di Novara dove le risaie si mostrano più a settentrione, situate proprio sotto le estreme colline moreniche, residuo delle ultime glaciazioni, che rendono lo skyline diverso da quello abituale.
Quindi, ecco sullo sfondo i pini silvestri che prosperano proprio in quei terreni "poveri" composti da argille e ciottoli. Un prato verdissimo sulla riva... e si aggiunga poi l'appena avvenuta sommersione, ciò vuol dire che passerà ancora qualche tempo prima di vedere spuntare le piantine di riso a nascondere la superficie. E dunque ai primi di aprile lo specchio d'acqua risulta in tutto simile a un lago.
E infine si inserisca l'elemento imprevisto, una catasta di tronchi di alberi ad alto fusto - frutto di un taglio non effettuato da decenni nella zona - che  richiama boschi e boscaioli di alte e altre quote. Un paesaggio davvero particolare. Voltando le spalle, spunta però la "normalità", con le contigue risaie della cascina Solarolo pronte a resituire al viandante il panorama più usuale.

venerdì 4 gennaio 2019

Abbazia di Pomposa, miraggio spazio-temporale nella nebbia

Forse è stato meglio così… visitarla in una freddissima mattina di fine anno avvolta dalle nebbie polesane, apparsa a fatica quasi come un  miraggio  nel silenzio di un grigiore imperante. Un’atmosfera quasi metafisica dove è stato naturale lasciarsi condurre dalla curiosità dell’occhio nello scoprire i particolari delle raffigurazioni o delle architetture più insinuanti.

L’Abbazia di Pomposa (Ferrara) si svela solo in parte: molti antichi simboli restano inspiegabili, dando così materia agli appassionati di esoterismo e la sua anima più profonda la si può solo intuire. In realtà l’obiettivo principale delle pareti istoriate di affreschi era proprio l’opposto… un linguaggio immediato che srotolava le Sacre scritture in immagini a uso del popolo analfabeta e dei pellegrini che un tempo passavano numerosi da questi parti, sulla via Romea. Ma il ciclo di affreschi è completato da innumerevoli particolari che sembrano andare a comporre  un gioco enigmistico di soluzione non banale. E se è chiaro il messaggio del Cristo Pantocratore dell’abside, opera di Vitale da Bologna, meno immediate sono le suggestioni dei cerchi rotanti e degli arzigogoli degli antichissimi disegni pavimentali o delle figure mostruose che campeggiano qua e là.

Grazie anche all’atmosfera, è stato comunque facile da una parte immedesimarsi - in una sorta di osmosi spazio temporale - nel visitatore medioevale, ammonito, guarda caso all’uscita, da un Giudizio Universale in controfacciata, dove  l’occhio, più che sulle beatitudini degli eletti cade su un mostruoso diavolo divoratore ma, dall’altra, lasciarsi prendere proprio dai particolari più intriganti.


Quelli che più riportano alle influenze di un’Oriente sentito vicino e “contaminante”. Colpisce la stella a otto punte su una volta del colonnato.



Otto come le lettere di “Pomposia”… ma anche otto come i raggi della ruota del Dharma oppure l’Albero della Vita con due grifi che lo sorreggono che fa mostra di sé in un atrio abbellito da decorazioni di gusto islamico dove, incastonati, spiccano alcuni bacili in ceramica, provenienti - dice l’ottima guida locale - dalla Siria, che ornano pure il campanile.


Particolari anche gli affreschi di Pietro da Rimini (XIV sec,) che ornano il refettorio, con un’ Ultima Cena apparecchiata su un desco rotondo che, secondo alcuni studiosi, riprenderebbe le forme circolari del Santo Sepolcro di Gerusalemme, accompagnata dal numero dodici (colonne/apostoli).
Dall’altra parte, interrotta dall’immagine di Cristo in trono con il Libro della Vita, un’altra cena, quella del Beato Guido intento a trasformare l’acqua in vino.
L’ultima sorpresa è lo scoprire che proprio qui, un altro Guido monaco, conosciuto poi come Guido d’Arezzo, inventò la moderna notazione musicale scegliendo le sillabe iniziali dei versi dell'Inno a San Giovanni Battista di Paolo Diacono. Una rivoluzione che non piacque all’interno del Monastero di Pomposa, tanto che l’ostilità dei confratelli lo costrinse a trasferirsi nella città toscana che poi gli diede in nome.